IL LINGUAGGIO DEL GIOCO: QUANDO LA PAROLA NON BASTA
Funzioni evolutive e terapeutiche del gioco nell’infanzia.
Dalla primissima infanzia il gioco rappresenta per il bambino una fonte preziosissima di informazioni per la conoscenza di sé, attraverso cui egli acquisisce consapevolezza del suo essere separato dal mondo.
A testimonianza di ciò, vediamo come la componente ludica, pressoché assente nei bambini con diagnosi di autismo, si rifletta in deficit importanti nella sfera delle relazioni e nel repertorio di attività, con conseguente ritardo nello sviluppo globale.
A partire già dai 2-3 mesi infatti l’originarsi di semplici interazioni ludiche madre-bambino, realizza la prima importante differenziazione di quest’ultimo dalla figura di riferimento affettivo, gettando così le basi per la futura autonomia ed esplorazione ambientale.
Vediamo quindi come la prima importante funzione del gioco sia quella di accogliere il bambino ad una vita nuova, profondamente diversa da quella intrauterina, in cui egli sperimenta per la prima volta l’incontro con l’altro dal sé.
L’attività ludica accompagna l’intero processo di crescita e di scoperta del bambino, dove l’esplorazione, intesa come prima modalità di approccio al nuovo, progressivamente lascia spazio al gioco in senso stretto, in cui il egli trae piacere nell’esercitare conoscenze ed abilità acquisite durante l’esplorazione stessa.
Una seconda importante funzione del gioco è quindi quella di consentire al bambino di sperimentarsi come agente attivo, in grado di apportare qualche cambiamento sulla realtà per effetto della sua azione.
Caratteristica fondamentale di questo processo ludico d’interazione bambino-ambiente è la spontaneità: nel gioco infatti il bambino trova uno spazio esclusivo per parlare di sé, svincolato da qualsiasi forma di limitazione o censura imposta dall’ambiente; egli sia lascia guidare dall’iniziativa, dalla soggettività che si manifesta nel gioco e si arricchisce nel gioco stesso.
Possiamo dire che una terza funzione del gioco è quella di favorire un contatto spontaneo con la realtà, in accordo con le caratteristiche psicologiche proprie di ciascun bambino. Personalmente attribuisco un’importanza rilevante a questa funzione: considero la spontaneità l’atteggiamento naturale con cui il bambino si rapporta al mondo esterno e la cui inibizione ne frena le potenzialità o, all’estremo, lo conduce ad uno sviluppo sintomatico.
Purtroppo viviamo in una società che, imponendo il raggiungimento in tempi record di standard sempre più elevati, sottrae i bambini da importanti esperienze di crescita; parallelamente, i giochi che proponiamo ai bambini, caratterizzati dal predominio della componente tecnologica, costituiscono un ulteriore limitazione alla componente spontanea.
Diversamente, esporre il bambino a materiali diversi per forma e consistenza, ma privi di un nucleo funzionale predefinito, lo stimola a realizzare qualcosa di veramente creativo, perché riflesso del suo modo di essere nel mondo: così, ad esempio, l’argilla o altra pasta da modellaggio, può ispirare la realizzazione di personaggi su cui costruire una storia; ritagli di stoffa possono trasformarsi in splendidi abiti con cui “fare finta di…”
Si potrebbe continuare ad oltranza l’elenco di simili materiali grezzi che per il bambino racchiudono un enorme potenziale creativo. Sono questi giochi che realmente apportano un contributo positivo allo sviluppo, nella misura in cui non limitano il bambino a esercitare la stessa monotona azione su di esso, ma suggeriscono una molteplicità di trasformazioni ed aggiustamenti. Non ci dobbiamo pertanto stupire, di come gran parte dei giochi che compriamo,vengano facilmente accantonati e sostituiti con richieste che appaiono sempre più pretenziose: essi non offrono quegli stimoli di cui il bambino ha bisogno al fine di comunicare ciò che per lui è importante in un preciso momento della sua vita.
Da quanto si è detto, si può meglio comprendere come la psicoterapia rivolta all’infanzia, prenda il nome di Play Therapy. In terapia il gioco assume una duplice valenza: quella di facilitare la costruzione di un rapporto di fiducia col terapeuta e quello di stimolare l’espressione di vissuti impressi nella mente e nel corpo del bambino, sotto forma di blocchi emotivi e comportamentali. Giocando il bambino parla spontaneamente di sé, ricostruendo eventi non ancora elaborati, o semplicemente modulando emozioni spiacevoli represse o non adeguatamente comprese e liberate.
Nel lavoro con i bambini il gioco rappresenta dunque lo strumento terapeutico per eccellenza, in cui tutte le resistenze costruite a difesa dell’io, sembrano arrendersi magicamente alla spontaneità, quale componente innata che si mantiene, seppur debitamente repressa, anche nell’età adulta. Sta a noi terapeuti ridarle vita e giusta dignità.
Dott.ssa Tiziana D’Orlando
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